nella causa civile di I Grado iscritta al N. R.G. 16895/2013
Tra
X. M. (C.F. OMISSIS), X. B. (C.F. OMISSIS) e X. I. (C.F. OMISSIS), quest’ultima anche in qualità di figlia del defunto X. Y.alter (figlio premorto di T. e X. A.), tutte in proprio e in qualità di eredi di X. A., rappresentate e difese, anche disgiuntamente, dagli avv.ti Riccardo Diamanti e Nicoletta Gagliano, elettivamente domiciliate in Firenze, in Via I. Nievo N.13, come da procura a margine della comparsa di costituzione in qualità di eredi
ATTRICI
e
MINISTERO DELLA SALUTE, in persona del Ministro p.t., rappresentato e difeso per legge dell’AVVOCATURA DISTRETTUALE DELLO STATO DI FIRENZE, presso i cui uffici è elettivamente domiciliato, in VIA DEGLI ARAZZIERI 4, 50129 FIRENZE
CONVENUTO
Conclusioni
All’udienza di precisazione delle conclusioni è comparso solo il procuratore di parte attrice, che si è riportato ai propri atti ed ha insistito in ogni istanza, deduzione e difesa, come da verbale del 15.7.2015.
1 – Sull’eccezione di difetto di legittimazione attiva della Sig.ra X. I.
Va, innanzitutto, disattesa l’eccezione di difetto di legittimazione attiva della sig.ra X. I., poiché, alla luce dei convergenti riscontri documentali presenti in atti, può ritenersi provata, in capo all’attrice, la qualità di erede della de cuius T. T., nonché dell’attore (coniuge superstite), deceduto nel corso del giudizio, X. A..
2 – Sull’eccezione di prescrizione
A) La domanda di risarcimento dei danni, che gli attori propongono iure hereditario, va, senz’altro, respinta per essersi prescritto il diritto azionato.
Emerge dalle stesse premesse di fatto dell’atto di citazione in riassunzione che le attrici hanno inoltrato nei confronti del Ministero domanda di indennizzo ex lege n. 210/1992 in data 20/03/1996, laddove il presente giudizio è stato incardinato con atto di citazione notificato il 18.01.2013.
Sono decorsi, quindi, diciassette anni prima che fosse intrapresa azione di risarcimento danni nei confronti del Ministero, a fronte di un termine di prescrizione quinquennale.
Che sia quinquennale la prescrizione in subiecta materia – quantomeno sul fronte dell’azione risarcitoria nei confronti del Ministero – è insegnamento consolidato della Suprema Corte.
Affermano i giudici di legittimità che l’omissione da parte del Ministero di attività funzionali alla realizzazione dello scopo per il quale l’ordinamento gli attribuisce la funzione di tutela della salute pubblica lo espone a responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c., per cui opera la prescrizione di cui all’art 2947, comma 1, c.c. (Cfr, ex multis, Cass. Civ., Sez. Un., 11.1.2008, n.581; Cass. Civ., Sez. Un., 11.1.2008, n.576; anche, recentemente, Cass. Civ., III, 19.12.2013, n. 28464).
È stato, peraltro, precisato, in relazione a fattispecie del tutto analoghe a quella che ci occupa, che non sono ipotizzabili i reati di epidemia colposa o di lesioni colpose plurime, per cui non è possibile beneficiare di un termine di prescrizione più lungo ( Cfr. Cass. cit.).
Quanto al dies a quo, è ius receptum che la prescrizione decorra dal momento in cui la malattia viene percepita o può essere percepita quale danno ingiusto conseguente al comportamento doloso o colposo del terzo, usando l’ordinaria diligenza e tenuto conto della diffusione delle conoscenze scientifiche.
Se non si conosce la causa del contagio, ex art. 2935 c.c., la prescrizione non inizia a decorrere, poiché la malattia, sofferta come tragica fatalità non imputabile ad un terzo, non è idonea a concretizzare il “fatto” che l’art. 2947, c.1, c.c. individua quale esordio della prescrizione.
Le Sezioni Unite hanno chiarito che non può ritenersi che solo con la comunicazione del responso della Commissione medica ospedaliera di cui all’art. 4 della legge n. 210/1992 inizi a decorrere la prescrizione.
Dal momento che l’indennizzo, di cui alla citata legge, è dovuto in presenza di danni irreversibili da vaccinazioni, emotrasfusioni o somministrazioni di emoderivati, è ragionevole ritenere che già al momento della proposizione della domanda amministrativa la vittima del contagio abbia acquisito sufficiente percezione della malattia, delle cause e delle conseguenze dannose ( Cfr. Sez. Un. cit.).
Dunque, nel momento in cui la sig.ra T. ha inoltrato la suddetta domanda di indennizzo (20.03.1996), sapeva, non solo, della malattia, ma anche della sua eziogenesi, come confermato da quanto asserito nelle premesse dell’atto di citazione, ove si legge testualmente che “in data 18/09/1995 alla paziente veniva diagnosticata l’irreversibilità della patologia epatica causata dalle trasfusioni di sangue infetto effettuate in concomitanza degli interventi chirurgici svolti negli anni 1985 e 1988”.
Non v’è dubbio, allora, che la prescrizione sia decorsa a partire da quel momento e che sia maturata, atteso che non sono intervenuti, medio tempore, idonei atti interruttivi.
È solo il caso di soggiungere che l’erogazione dell’indennizzo previsto dalla legge N. 210/1992 non integra riconoscimento del diritto al risarcimento del danno ai fini dell’interruzione della prescrizione ( Cfr. Cass. Civ., 8.10.2014, n. 21257).
In definitiva, per tutto quanto è emerso, la domanda proposta iure hereditario va respinta.
B) Altro è a dirsi, invece, per la domanda proposta iure proprio.
In tal caso, alla luce del principio cristallizzato nell’art. 2935 c.c., deve ritenersi che il diritto potesse essere azionato solo dal momento del decesso del congiunto.
Tant’è che lo stesso Ministero osserva: “l’unica voce di danno che può invece ritenersi non prescritta è quella dedotta (…) iure proprio (…) dovendosi sotto tale profilo individuare il dies a quo della prescrizione nella data del decesso della dante causa degli odierni attori (15 aprile 2010)”.
3 – Sul nesso causale tra le trasfusioni e l’evento morte
La prospettazione attorea trova riscontro in atti sotto il profilo del nesso causale tra l’epatite di tipo C – che contrasse T. T. – e le trasfusioni praticate tra il 1985 ed il 1988 presso la Clinica Chirurgica Generale dell’Università di Firenze – Careggi.
Basta leggere, in tal senso, il giudizio della Commissione Medica Ospedaliera di Livorno all’esito del procedimento ex lege N. 210/1992: “Sì, esiste nesso causale tra la trasfusione e infermità … epatite cronica attiva ad attività moderata severa … ascrivibile alla sesta categoria della tabella A, allegata al D.P.R. 30 dicembre 1981, n. 834” (vd. doc. 4 della produzione attorea).
Trova riscontro in atti, inoltre, che:
– le cause della morte siano state “Causa iniziale: cirrosi epatica HCV-correlata, anni 18, mesi 00, giorni 00 … causa intermedia/complicazione: epatocarcinoma: anni 2, mesi 3, giorni 00 … causa terminale: cachessia neoplastica: mesi 4, giorni 00 … Causa derivante da malattia infettiva – diffusiva compresa nell’elenco pubblicato dal Ministero della Sanità” (vd. certificato di accertamento di morte allegato come doc. 14 della produzione attorea);
– la Commissione Medica Ospedaliera di La Spezia abbia ritenuto, altresì, sussistente il nesso causale tra trasfusione ed exitus per cirrosi epatica HCV correlata, epatocarcinoma, cachessia neoplastica (vd. Verbale Medico Legale redatto dalla CMO di La Spezia, docc. 16 e 17 della produzione attorea).
Dunque, può ritenersi provata la riconducibilità eziologica dell’evento morte alle trasfusioni praticate tra il 1985 ed il 1988.
4 – Sulla responsabilità del Ministero Si è detto in giurisprudenza che, in tema di patologie conseguenti ad infezioni con i virus HBV (epatite B), HIV (AIDS) e HCV (epatite C) contratte a causa di assunzione di emotrasfusioni o di emoderivati con sangue infetto, per l’unicità dell’evento lesivo consistente nella lesione dell’integrità fisica, vi è una presunzione di responsabilità del Ministero della salute per il contagio verificatosi negli anni tra il 1979 e il 1989, stante l’avvenuta scoperta scientifica della prevedibilità delle relative infezioni, individuabile nel 1978, con il conseguente obbligo di controllo e di vigilanza in materia di raccolta e distribuzione di sangue umano per uso terapeutico, presunzione che può essere vinta solo se viene fornita dallo stesso Ministero la prova dell’adozione di condotte e misure necessarie per evitare la contagiosità, a prescindere dalla conoscenza di strumenti di prevenzione specifica (Cass. Civ., III, 14.3.2014, N. 5954). In altri termini, il Ministero della salute è tenuto ad esercitare un’attività di controllo e di vigilanza in ordine alla pratica terapeutica della trasfusione del sangue e dell’uso degli emoderivati, per cui risponde, ai sensi dell’art. 2043 cod. civ., dei danni conseguenti ad epatite ed a infezione da HIV, contratte da soggetti emotrasfusi, per omessa vigilanza sulla sostanza ematica e sugli emoderivati (Cass. Civ., III, 12.12.2014, N. 26152). Ciò posto, risulta infondato l’assunto, che vorrebbe insussistente qualsivoglia responsabilità in capo al Ministero. Emerge, invece, con chiarezza, non solo dalla L. 107/1990, ma anche dalla legislazione previgente, la sussistenza di un preciso obbligo di controllo in materia di sangue umano a carico del Ministero della Sanità (cfr. Cass. Civ. Sez. 3, N. 11609 del 31/05/2005). In relazione al caso in esame, la responsabilità del Ministero si configura senz’altro, in quanto non è stata fornita alcuna prova idonea a scalfire la suddetta presunzione. Il Ministero si limita a sostenere di aver emanato una serie di provvedimenti, idonei ad esonerarlo da qualsiasi responsabilità per mancato esercizio della potestà legislativa o da inadempimento o ritardo nella predisposizione di direttive tese a ridurre il pericolo di trasmissione dei virus HBV e HCV. Sul punto, deve rilevarsi, alla luce delle allegazioni dello stesso ente convenuto, che, solo a partire dal 1990, sono stati emanati provvedimenti adeguati per la realizzazione di un sistema di controllo delle unità di sangue destinate alle trasfusioni.
E, in ogni caso, la mera attività di normazione non è affatto esaustiva ai fini dell’adempimento degli obblighi sussistenti in capo al Ministero: “La colpa della P.A. rimane (…) integrata anche in ragione della violazione dei dovuti comportamenti di vigilanza e controllo, (…), costituenti limiti esterni alla sua attività discrezionale ed integranti la norma priM. del neminen laedere di cui all’art. 2043 (…) in base alle quali essa è tenuta ad un comportamento attivo di vigilanza, sicurezza ed attivo controllo in ordine all’effettiva attuazione da parte delle strutture sanitarie addette al servizio di emotrasfusione di quanto ad esse prescritto al fine di prevenire ed impedire la trasmissione di malattie mediante il sangue infetto (…), non potendo invero considerarsi esaustiva delle incombenze alla medesima in materia attribuite la quand’anche assolta mera attività di normazione (emanazione di decreti, circolari, ecc) ” (cfr. Cass. Civ. III sez. 23.01.2014, N. 1355).
5 – Sui danni non patrimoniali iure proprio
A) Quanto ai danni non patrimoniali meritevoli di risarcimento, alla luce dei recenti arresti delle Sezioni Unite (vd. Cass. Civ., Sez. Un., 11.11.2008), è necessario premettere che:
– il danno non patrimoniale deve essere inteso nella sua accezione più ampia di danno determinato dalla lesione di interessi inerenti alla persona non connotati da rilevanza economica;
– la norma di riferimento (art. 2059 c.c.) è norma di rinvio, che rimanda alle leggi, che determinano i casi di risarcibilità del danno non patrimoniale (vd. art. 185 c.p., vd. i casi previsti da leggi ordinarie);
– al di fuori dei casi espressamente determinati dalla legge, in virtù del principio della tutela minima risarcitoria spettante ai diritti costituzionali inviolabili, la tutela è estesa ai casi di danno non patrimoniale prodotto dalla lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione;
– in quest’ottica, va ricondotto nell’ambito dell’art. 2059 c.c. anche il danno da lesione del diritto inviolabile alla salute (art. 32 Cost.), c.d. danno biologico;
– nell’ambito della categoria generale del danno non patrimoniale, il c.d. danno morale ed il danno c.d. esistenziale non individuano autonome sottocategorie di danno, ma tra i possibili pregiudizi non patrimoniali descrivono un tipo di pregiudizio, costituito dalla sofferenza soggettiva anche transeunte;
– il risarcimento del danno alla persona deve essere integrale, nel senso che il pregiudizio deve essere interamente ristorato, ma si devono evitare duplicazioni;
– determina duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno biologico e del danno morale o del danno esistenziale, nonché la congiunta attribuzione del danno morale e di quello esistenziale;
– semmai, il giudice deve procedere ad adeguata personalizzazione della liquidazione del danno biologico, valutando nella loro effettiva consistenza le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso, onde pervenire al ristoro del danno nella sua interezza.
B) Ciò premesso, al di là delle diverse voci di danno non patrimoniale menzionate dagli attori (“sofferenza fisica e psichica, … danno esistenziale … danno morale”), va risarcito il danno non patrimoniale che, iure proprio, gli attori hanno effettivamente e complessivamente patito.
In tali termini, la domanda merita accoglimento, poiché è assolutamente ragionevole ritenere che gli stretti congiunti di una persona deceduta in conseguenza dell’altrui illecito abbiano diritto, iure proprio, al risarcimento del danno non patrimoniale direttamente sofferto, inteso come intima sofferenza, che non degenera in patologia (si cfr., ex multis, Cass. Civ., 25.2.1997, N.1704).
Occorre precisare, ancora, che, qualche anno fa, si è pervenuti all’ammissione della risarcibilità del danno da uccisione di congiunto, consistente nella definitiva perdita del rapporto parentale.
Si è detto che l’interesse fatto valere nel caso di danno da uccisione di un congiunto è quello alla intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell’ambito della famiglia, alla inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell’ambito di quella peculiare formazione sociale, che è la famiglia, la cui tutela trova fondamento nelle norme costituzionali, di cui agli artt.2, 29 e 30 Cost.
Trattandosi di un pregiudizio, che si proietta nel futuro – a differenza di quanto accade con il danno morale soggettivo – e dovendosi avere riguardo al periodo di tempo, per il quale si sarebbe presumibilmente esplicato il godimento del congiunto, è ammesso il ricorso a valutazioni prognostiche e per presunzioni, pur sulla base di elementi oggettivi.
Come si è già detto, nell’ambito di una rivisitazione complessiva della materia del risarcimento del danno non patrimoniale, la Suprema Corte ha osservato che determina duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno morale e del danno da perdita del rapporto parentale, poiché la sofferenza patita nel momento in cui la perdita viene percepita e quella che accompagna l’esistenza del soggetto che l’ha subita altro non sono che componenti del complesso pregiudizio, che va integralmente ed unitariamente ristorato.
Sicché, occorre far luogo ad una valutazione unitaria del danno non patrimoniale patito dagli attori per effetto della scomparsa del proprio caro.
Nell’ambito di tale valutazione, occorre considerare l’età dello scomparso, la gravità del fatto illecito, l’intensità del vincolo di sangue esistente tra la vittima e gli istanti, l’età del congiunto danneggiato, la relazione di convivenza nonché tutti gli elementi peculiari della fattispecie concreta, così che il risarcimento sia, il più possibile, adeguato al danno e non meramente simbolico.
Nella specie, alla luce di una valutazione complessiva di tutte le circostanze del caso concreto ed applicando i parametri indicati nella tabella di Milano, il Tribunale ritiene equo e congruo riconoscere:
– all’attore A. X. e, quindi, a tutte le eredi pro quota (attrici) la somma complessiva di € 200.000,00 (la liquidazione tiene conto, per un verso, della convivenza con la de cuius, come emerge dai riscontri documentali in atti; per altro verso, del fatto che il danno è stato sofferto per un tempo determinato, visto che, nelle more di questo giudizio, è intervenuto il decesso di X. A.);
– all’attrice X. M. la somma di € 163.990,00 (si tiene conto, tra l’altro, della non convivenza con la de cuius);
– all’attrice X. B. la somma di € 163.990,00 (in tal caso, la convivenza con la de cuius è stata dedotta, ma non provata e, per vero, il capitolo di prova N. 28, come articolato nella memoria attorea N. 2, non è stato ammesso, poiché trova secca smentita nei riscontri documentali in atti, tra i quali va annoverata la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà a firma di X. A., il quale dichiarava espressamente che alla data del decesso di T. lo stato di famiglia comprendeva solo il dichiarante nella sua qualità di coniuge convivente).
Quanto all’attrice X. I. (nipote della de cuius T.), ritiene questo giudice che debba essere, parimenti, riconosciuto il risarcimento del danno non patrimoniale (sub specie di danno esistenziale), a prescindere dalla convivenza (in tal senso cfr. Cass. Pen., III, 11.7.2013, N. 29735 e Cass. Civ., III, 15.7.2005, N. 15019).
Ciò, tenuto conto, tra l’altro, della connotazione ontologica del danno esistenziale, che, per definizione, è pregiudizio che si riverbera e proietta sull’esistenza futura del danneggiato.
In quest’ottica, non si può non considerare che il parente dello scomparso, indipendentemente dalla frequentazione più o meno costante intrattenuta con il proprio caro sino al momento del decesso, è privato pro futuro, innaturalmente e definitivamente, di un riferimento che ha fondamentale pregnanza per ragioni sociali, culturali, storiche (in uno antropologiche) e sentimentali, che si collocano ben al di là di quelle che sono le circostanze di fatto contingenti (vd. frequentazione, convivenza, coabitazione etc.); per non dire di quel sistema di relazioni che possono estrinsecarsi in vario modo e che, quindi, non si prestano ad essere ricondotte e costrette entro schemi o categorie.
Ai fini della liquidazione, considerato che la tabella di Milano non contempla le relazioni parentali nonni / nipoti e ritenuto, comunque, opportuno fare riferimento a criteri tabellari, questo giudice, avuto riguardo alla tabella di Roma, determina il danno non patrimoniale patito da X. I. in conseguenza della morte di T. nella somma di € 56.430,00.
Dal momento che le somme sin qui liquidate a titolo di danno non patrimoniale sono espresse in valori già attuali, quanto agli interessi va richiamato l’orientamento assunto dalla Suprema Corte, che, con una decisione a Sezioni Unite (v. Cass. Civ. 17.02.1995 n.1712, più di recente, Cass. Civ., III, 27.07.2001, n.10291; Cass. Civ., III, 15.01.2001, n.492; Cass. Civ., III, 1.12.2000, n.15368), ha posto fine ad un contrasto da tempo esistente in ordine alle modalità di calcolo di tali accessori nell’ipotesi di pronuncia risarcitoria da illecito. Si è statuito, infatti, che in tema di risarcimento del danno da illecito extracontrattuale, se la liquidazione viene effettuata con riferimento al valore del bene perduto dal danneggiato all’epoca del fatto illecito, espresso in termini monetari che tengano conto della svalutazione monetaria intervenuta fino alla data della decisione definitiva, è dovuto anche il danno da ritardo e, cioè, il lucro cessante provocato dal ritardato pagamento della suddetta somma, che deve essere provato dal creditore.
Tuttavia, la prova può essere data e riconosciuta dal Giudice secondo criteri presuntivi ed equitativi e, quindi, anche mediante l’attribuzione degli interessi ad un tasso stabilito valutando tutte le circostanze oggettive e soggettive inerenti alla prova del pregiudizio subito per il mancato godimento del bene o del suo equivalente in denaro.
Se, quindi, il Giudice adotta, come criterio di risarcimento del danno da ritardato adempimento, quello degli interessi, fissandone il tasso, mentre è escluso che questi ultimi possano essere calcolati alla data dell’illecito sulla somma liquidata per il capitale, rivalutata definitivamente, è consentito, invece, effettuare il calcolo con riferimento ai singoli momenti (da determinarsi in concreto secondo le circostanze del caso) con riguardo ai quali la somma equivalente al bene perduto si incrementa nominalmente in base agli indici prescelti di rivalutazione monetaria ovvero ad un indice medio.
Ciò posto, il Ministero dovrà corrispondere alle attrici gli interessi al tasso legale dalla data del fatto (15.4.2010) ad oggi sulle somme sopra determinate, come devalutate alla data del fatto secondo gli indici ISTAT dei prezzi al consumo delle famiglie di operai ed impiegati e, quindi, rivalutate anno per anno fino ad oggi secondo il medesimo indice.
Dal momento della sentenza sino all’effettivo soddisfo dovranno essere corrisposti, sulle somme liquidate all’attualità, gli ulteriori interessi al tasso legale.
6 – Sulla non cumulabilità di risarcimento ed indennizzo
L’indennizzo conseguito ex lege N. 210/1992 non va portato in detrazione, poiché, per quanto è emerso dagli atti e dalle deduzioni delle parti (comparativamente esaminate), gli attori hanno ottenuto l’indennizzo previsto dall’art. 2, comma 3, della legge N. 210/1992 ovvero un assegno una tantum, che la legge riconosce ai congiunti quali eredi, in sostituzione dell’indennizzo che, in tutto o in parte, sarebbe stato erogato al de cuius.
Stanti così le cose, non è corretto mettere sullo stesso piano – e, quindi, scomputare – un indennizzo che gli attori hanno conseguito quali eredi ed in luogo del de cuius e l’importo risarcitorio che in questa sede si riconosce agli attori iure proprio.
L’esito del giudizio depone per la soccombenza del Ministero, che va, perciò, condannato al rimborso in favore delle attrici delle spese di lite, come da dispositivo che segue.
Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni altra istanza disattesa o assorbita, così provvede:
a) ogni altra istanza ed eccezione disattesa, accoglie, per quanto di ragione, la domanda attorea e, per l’effetto, dichiara che il decesso di T. è eziologicamente riconducibile alle trasfusioni praticate dalla de cuius tra il 1985 ed il 1988;
b) in accoglimento della domanda di risarcimento proposta iure proprio, condanna il Ministero a corrispondere:
– all’attore A. X. e, quindi, alle eredi pro quota (attrici) la somma complessiva di € 200.000,00;
– all’attrice X. M. la somma di € 163.990,00;
– all’attrice X. B. la somma di € 163.990,00;
– all’attrice X. I. la somma di € 56.430,00;
c) condanna il Ministero a corrispondere alle attrici gli interessi al tasso legale dalla data del fatto (15.4.2010) ad oggi sulle somme sopra determinate, come devalutate alla data del fatto secondo gli indici ISTAT dei prezzi al consumo delle famiglie di operai ed impiegati e, quindi, rivalutate anno per anno fino ad oggi secondo il medesimo indice, con gli ulteriori interessi al tasso legale dal momento della sentenza sino all’effettivo soddisfo;
d) condanna il Ministero al rimborso, in favore delle attrici, delle spese di lite, che liquida in complessivi € 11.472,00, oltre spese di contributo unificato, bolli e notifiche, spese generali, IVA e CPA, se dovute, come per legge.
Il Giudice
dott. Massimo Donnarumma