Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BRUNO Paolo Antonio – Presidente –
Dott. MICCOLI Grazia – Consigliere –
Dott. SETTEMBRE Antonio – Consigliere –
Dott. GUARDIANO Alfredo – rel. Consigliere –
Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –
sul ricorso proposto da:
G.L. nato il (OMISSIS);
avverso la sentenza del 04/03/2015 del TRIBUNALE di PERUGIA;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udito in PUBBLICA UDIENZA del 13/05/2016, la relazione svolta dal Consigliere ALFREDO GUARDIANO;
Udito il Procuratore Generale in persona del GIUSEPPE CORASANITI che ha concluso per l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per essere il reato estinto per prescrizione;
Udito il difensore Avv. Mastrangeli Fabrizio, difensore della parte civile, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso, depositando conclusioni scritte e nota spese;
Avv. Francesco Blasi, difensore di fiducia del G., che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
1. Con la sentenza di cui in epigrafe il tribunale di Perugia, in qualità di giudice di appello, confermava la sentenza con cui il giudice di pace di Perugia, in data 11.7.2012, aveva condannato G.L. alla pena ritenuta di giustizia ed al risarcimento dei danni derivanti da reato, in relazione al reato di cui agli artt. 81 cpv. e 595 c.p., commesso in danno di M.M., con le modalità indicate nel capo d’imputazione.
2. Avverso tale sentenza, di cui chiede l’annullamento, ha proposto tempestivo ricorso per cassazione l’imputato, a mezzo del suo difensore di fiducia, avv. Francesco Blasi, del Foro di Perugia, deducendo: 1) violazione di legge, in relazione agli artt. 595, 51 e 59 c.p., art. 192 c.p.p., nonchè vizio di motivazione, in quanto il percorso argomentativo seguito dal giudice di secondo grado appare inidoneo a fondare l’affermazione di responsabilità del G., il quale, nella sua qualità di componente del c.d.a. della società “Vigilanza Umbra Srl”, da cui dipendeva la guardia giurata M.M., e titolare della relativa licenza di pubblica sicurezza, si è limitato a rappresentare agli organi pubblici competenti a valutare il possesso da parte del M. dei necessari requisiti psico-fisici per continuare ad utilizzare un’arma da fuoco, quanto era a sua conoscenza in ordine alle modalità con cui la persona offesa svolgeva il suo lavoro, alla luce delle segnalazioni ricevute al riguardo, che avevano evidenziato un comportamento del M. non consono al compito assegnatogli, soprattutto con riferimento a molestie arrecate al personale di sesso femminile del supermercato dove la persona offesa prestava il suo servizio di vigilanza, che avevano determinato l’adozione di un ordine di servizio da parte della menzionata società, con cui veniva fatto divieto ai propri dipendenti di familiarizzare con il personale del supermercato, astenendosi da qualsiasi atteggiamento che potesse dare luogo a rimostranze; 2) violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla rinuncia alla prescrizione maturata prima della sentenza di secondo grado, ritenuta dal tribunale, ma in realtà mai verificatasi; 3) violazione di legge e vizio di motivazione in ordine all’entità del trattamento sanzionatorio e del risarcimento del danno, ritenuta in entrambi i casi eccessiva; 4) l’applicazione al caso in esame della causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis c.p., di cui, ad avviso del ricorrente, sussistono le condizioni.
3. Con memoria depositata il 27.4.2016 dal suo difensore di fiducia, avv. Fabrizio Mastrangeli, del Foro di Perugia, il M. chiede che il ricorso venga dichiarato inammissibile o rigettato, con conferma di tutte le statuizioni civili della sentenza impugnata.
4. In via preliminare va rilevato che il termine di prescrizione del reato per cui si procede, corrispondente, nella sua massima estensione, a sette anni e sei mesi, in considerazione degli atti interruttivi intervenuti ed in assenza di cause di sospensione del relativo decorso, risulta sicuramente perento alla data del 13.2.2015, trattandosi di reato commesso il (OMISSIS).
Si è pertanto verificata, dopo la pronuncia della sentenza di primo grado e prima di quella di secondo grado (intervenuta il 4.3.2015), una causa di estinzione del reato, che compete a questa Corte di Cassazione rilevare, non potendosi considerare integralmente inammissibile il ricorso presentato dall’imputato, essendo incentrato, in parte, su questioni di diritto non manifestamente infondate, nè generiche.
Come è noto, infatti, il principio della immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità, sancito dall’art. 129 c.p.p., comma 2, opera anche con riferimento alle cause estintive del reato, quale è la prescrizione, rilevabili nel giudizio di cassazione (cfr., ex plurimis, Cass., sez. 3^, 01/12/2010, n. 1550, rv. 249428; Cass., sez. un., 27/02/2002, n. 17179, Conti).
Inoltre, come affermato dall’insegnamento prevalente nella giurisprudenza del Supremo Collegio, il giudice di legittimità può rilevare anche d’ufficio la prescrizione del reato maturata prima della pronunzia della sentenza impugnata e non rilevata dal giudice d’appello, pur se non dedotta in quella sede, ma solo se, a tal fine, non occorra alcuna attività di apprezzamento delle prove finalizzata all’individuazione di un “dies a quo” diverso da quello indicato nell’imputazione contestata e ritenuto nella sentenza di primo grado (cfr., ex plurimis, Cass., sez. 4^, 26/11/2014, n. 51766, rv. 261580).
Logico corollario di tale affermazione sulla piena operatività dell’art. 129 c.p.p., è che anche nel giudizio di legittimità sussiste l’obbligo di dichiarare una più favorevole causa di proscioglimento ex art. 129 c.p.p., comma 2, pur ove risulti l’esistenza della causa estintiva della prescrizione, obbligo che, tuttavia, in considerazione dei caratteri tipici del giudizio innanzi la Corte di Cassazione, sussiste nei limiti del controllo del provvedimento impugnato, in relazione alla natura dei vizi denunciati (cfr. Cass., sez. 1^, 18/04/2012, n. 35627, rv. 253458).
Il sindacato di legittimità che, pertanto, si richiede alla corte in questo caso deve essere circoscritto all’accertamento della ricorrenza delle condizioni per addivenire a una pronuncia di proscioglimento nel merito con una delle formule prescritte dall’art. 129 c.p.p., comma 2: la conclusione può essere favorevole al giudicabile solo se la prova dell’insussistenza del fatto o dell’estraneità a esso dell’imputato risulti evidente sulla base degli stessi elementi e delle medesime valutazioni posti a fondamento della sentenza impugnata, senza possibilità di nuove indagini e ulteriori accertamenti che sarebbero incompatibili con il principio secondo cui l’operatività della causa estintiva, determinando il congelamento della situazione processuale esistente nel momento in cui è intervenuta, non può essere ritardata. Pertanto, qualora il contenuto complessivo della sentenza non prospetti, nei limiti e con i caratteri richiesti dall’art. 129 c.p.p., l’esistenza di una causa di non punibilità più favorevole all’imputato, deve prevalere l’esigenza della definizione immediata del processo (cfr. Cass., sez. 4^, 05/11/2009, n. 43958, F.).
In presenza di una causa di estinzione del reato, infatti, la formula di proscioglimento nel merito (art. 129 c.p.p., comma 2) può essere adottata solo quando dagli atti risulti “evidente” la prova dell’innocenza dell’imputato, sicchè la valutazione che in proposito deve essere compiuta appartiene più al concetto di “constatazione” che di “apprezzamento” (cfr. Cass., sez. 2^, 11/03/2009, n. 24495, G.), circostanza che, come risulta dalla stessa articolata esposizione dei motivi di ricorso ed alla luce di quello che si dirà in seguito, non può ritenersi sussistente nel caso in esame.
Appare, inoltre, fondato l’assunto difensivo in ordine al mancato verificarsi di una rinuncia alla prescrizione da parte dell’imputato.
La corte territoriale, all’udienza del 4.3.2015 (in presenza del M., che nulla osservava al riguardo), quando il termine di prescrizione era già perento, deduceva la rinuncia alla prescrizione da parte dell’imputato dalla circostanza che “ad espressa domanda del giudice circa la volontà di rinunciare o meno a far valere la prescrizione, il difensore ha annuito, confermando la richiesta di assoluzione nel merito e non avanzando alcuna espressa richiesta subordinata”, salvo spiegare, dopo la lettura del dispositivo, “di non aver compreso la domanda del giudice in merito alla rinuncia alla prescrizione, specificando che era sua intenzione, sebbene non esplicitata, chiedere, in via di mero subordine, sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione” (cfr. p. 2 della sentenza oggetto di ricorso).
Evidente l’errore di diritto in cui è incorsa la corte territoriale, non potendosi evincere da un mero cenno di assenso del difensore dell’imputato, la rinuncia ad avvalersi dell’intervenuto decorso del termine di prescrizione.
Come affermato, infatti, dall’orientamento dominante nella giurisprudenza di legittimità, condiviso dal Collegio, la rinuncia alla prescrizione, ai sensi dell’art. 157 c.p.p., comma 7, richiede una dichiarazione di volontà espressa e specifica che non ammette equipollenti, per cui, qualora il giudice, come nel caso in esame, non rilevi l’intervenuta prescrizione ex art. 129, c.p.p., l’errore può essere dedotto con ricorso in cassazione (cfr. Cass., sez. U., 30.9.2010, n. 43055, rv. 248379; Cass., sez. U., 25.2.2016, n. 18953, rv. 266333).
D’altro canto, come pure chiarito dall’orientamento prevalente nella giurisprudenza di legittimità, condiviso dal Collegio, la rinuncia alla prescrizione non rientra nel novero degli atti processuali che possono essere compiuti dal difensore a norma dell’art. 99, c.p.p., in quanto costituisce, dopo la sentenza della Corte costituzionale che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 157 c.p., nella parte in cui non prevedeva tale possibilità a favore dell’imputato, un diritto personalissimo dello stesso che è a lui personalmente ed esclusivamente riservato.
Per cui deve escludersi, tra l’altro, la possibilità che il silenzio dell’imputato, in presenza di una richiesta avanzata dal difensore, possa essere equiparato ad un comportamento concludente diretto a manifestare una positiva volontà alla rinuncia (cfr. Cass., sez. 2^, 9.6.2005, n. 23412, rv. 231879; Cass., sez. 14.12.2012, n. 21666, rv. 256076).
La sentenza impugnata va, pertanto, annullata senza rinvio, agli effetti penali, per essere il reato estinto per prescrizione.
4. In relazione alle statuizioni civili dell’impugnata sentenza, su cui questo Collegio deve comunque pronunciarsi ai sensi dell’art. 578 c.p.p., nei limiti dei motivi di impugnazione proposti dall’imputato, va rilevata l’infondatezza delle doglianze difensive, con conseguente rigetto del ricorso, agli effetti civili.
Ed invero la condotta dell’imputato rientra nel paradigma normativo di cui all’art. 595 c.p.
Appare evidente, infatti, l’oggettiva lesione della reputazione della persona offesa, bene consistente, come è noto, non nella considerazione che ciascuno ha di sè o con il semplice amor proprio, ma con il senso della dignità personale in conformità all’opinione del gruppo sociale, secondo il particolare contesto storico (cfr. Cass., sez. 5^, 28.2.1995, n. 3247, rv. 201054), contenuta nella missiva inviata dal G., nella menzionata qualità, al dott. Francesco Pelliccia (medico del lavoro); alla Questura di Perugia (Divisione P.A.S.I.) ed alla Prefettura di Perugia (Area 1-bis Sicurezza e Ordine Pubblico), con cui il M. è stato “additato quale persona che, durante l’orario di lavoro, aveva abitualmente molestato alcune ragazze”, circostanza, rileva la corte territoriale, categoricamente smentita dagli esiti cui è pervenuta l’istruttoria dibattimentale ed, in particolare, dalle dichiarazioni rese dalle lavoratrici che prestavano la loro attività all’interno del supermercato alla cui vigilanza era stato addetto il M. (cfr. pp. 4-6 della sentenza impugnata).
Non è revocabile in dubbio, infatti, l’estremo disfavore con cui la comunità giudica chi molesta le persone di sesso femminile, escludendo in radice, peraltro, la falsità dell’addebito, che l’imputato avrebbe potuto evitare esercitando la dovuta diligenza, la possibilità che la condotta di quest’ultimo possa considerarsi scriminata sotto il profilo dell’esercizio di un qualsivoglia diritto da parte del G., collegato allo svolgimento delle mansioni lavorative della persona offesa.
5. Con riferimento ai motivi di ricorso sintetizzati sub n. 3), deve ritenersi assorbita nella dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione la doglianza relativa all’entità del trattamento sanzionatorio, mentre va dichiarata inammissibile, perchè di natura squisitamente fattuale, quella riguardante la quantificazione del danno riconosciuto alla parte civile.
6. Va, infine, rigettato l’ultimo motivo di ricorso, per la decisiva ragione che la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione prevale sulla esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131 bis, c.p., in quanto essa, estinguendo il reato, rappresenta un esito più favorevole per l’imputato, mentre la seconda lascia inalterato l’illecito penale nella sua materialità storica e giuridica (cfr. Cass., sez. 6^, 27.1.2016, n. 11040, rv. 266505).
7. Al rigetto del ricorso agli effetti civili consegue la condanna del ricorrente alla rifusione delle spese sostenute in questo grado di giudizio dalla parte civile, che si liquidano in complessivi Euro 1800,00, oltre accessori di legge.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata senza rinvio perchè il reato è estinto per prescrizione; rigetta il ricorso agli effetti civili e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese in favore della parte civile, liquidate in complessivi Euro 1800,00, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 13 maggio 2016.
Depositato in Cancelleria il 6 ottobre 2016.