“Amianto” (dal greco ἀμίαντος, «incorruttibile») è il lemma col quale si indicano due gruppi di minerali: gli inosilicati ed i filosilicati.
Essi sono accomunati dalla caratteristica composizione fibrosa. Una fibra di amianto è 1300 volte più sottile di un capello umano.
Le fibre di amianto, se inalate od ingerite, sono dannose per la salute umana.
Le fibre di amianto inalate possono provocare principalmente l’asbestosi (una fibrosi estensiva non tumorale del polmone), il carcinoma (tumore del polmone), ed il mesotelioma (tumore del mesotelio).
Il mesotelioma è una neoplasia del mesotelio, che è la membrana che riveste alcuni organi, ed a seconda dell’organo rivestito prende il nome di pericardio pleura o peritoneo.
Il mesotelioma pleurico, ovvero il tumore della pleura (membrana che avvolge ciascun polmone) è uno dei tumori più frequentemente causati dall’inalazione di fibre di amianto.
Studi condotti dall’istituto superiore di Sanità rivelano che nel 69% dei casi il mesotelioma pleurico è causato dallo svolgimento di particolari attività lavorative.
E’ significativo che il maggior numero di casi di morte per mesotelioma pleurico sia stato registrato nei comuni italiani in cui è sviluppata l’industria cantieristica (Monfalcone, Genova, La Spezia, Taranto: cfr. Iavarone, Mortalità precoce per tumore maligno della pleura come indicatore di esposizione ambientale ad amianto nell’infanzia, in Atti del Convegno “Primi risultati Progetti Nazionali sull’Amianto”, svoltosi presso l’Istituto Superiore di Sanità il 12 novembre 2015, in httpwww.iss.itamianto).
Ma se la scienza è certa che l’inalazione di amianto provochi il mesotelioma pleurico, in giudizio è proprio quando si tratta di accertare il nesso di causa che sorgono problemi. Problemi, come si vedrà, ben più gravi in ambito penale che in ambito civile.
Questi problemi sono due.
Il primo problema è che il mesotelioma pleurico può avere un periodo di incubazione lunghissimo: da 10 fino a 40 anni. Questa circostanza può provocare in primo luogo problemi pratici: ad esempio, quanto la società commerciale datrice di lavoro del lavoratore malato sia stata cancellata dal registro delle imprese e si sia estinta. In questi casi, ovviamente, il lavoratore può dire addio ad una seria speranza di tutela risarcitoria, salvo proporre la generale azione aquilianaex art. 2043 c.c. nei confronti delle persone fisiche che, avendo gestito l’impresa, fossero venute meno ai propri obblighi di sorveglianza e adozione delle necessarie misure di sicurezza.
La lunga durata del periodo di incubazione del mesotelioma provoca però anche problemi giuridici: ad esempio, quando la malattia compaia allorché il lavoratore da tempo ha smesso di lavorare; oppure quando il lavoratore nel periodo di incubazione abbia lavorato presso diversi datori di lavoro, restando però esposto presso ciascuna sede lavorativa all’inalazione di fibre di amianto.
In questi casi sorge il problema di stabilire se tutti i datori di lavoro abbiano concorso alla causazione del male, ovvero solo uno od alcuni di essi (quello che per primo ha favorito l’inalazione di fibre di amianto? Oppure quello che ne ha favorito la più prolungata o più intensa inalazione?).
Qui la scienza aiuta poco, perché la comunità scientifica non è affatto unanime quando si tratta di stabilire se l’asbestosi sia “dose-indipendente” o “dose-dipendente”: vale a dire se sia la prima inalazione a provocare la malattia, mentre le successive sono irrilevanti; oppure se le inalazioni successive alla prima accelerino o aggravino il processo patologico.
L’insorgenza del mesotelioma si divide infatti in due fasi: quella della iniziazione, in cui il DNA si trasforma; e quella della promozione, in cui le cellule trasformate iniziano a proliferare in modo patologico.
Ma mentre è certo che l’amianto sia responsabile della iniziazione, si discute se esso sia anche causa della promozione.
Secondo un primo orientamento, il mesotelioma pleurico è “dose-dipendente” (ovvero “dose-risposta” o “dose-correlato”). Ciò vuol dire che più si resta esposti all’amianto, più aumenta il rischio di ammalarsi, e più si riduce il periodo di latenza.
Secondo un diverso orientamento, invece, il mesotelioma pleurico è un tumore “dose-indipendente”: ciò vuol dire che una volta inalate per la prima volta fibre di amianto (anche per poco tempo), ed innescato il meccanismo eziopatogenetico, tutte le esposizioni successive sono eziologicamente irrilevanti, perché “causa” in senso clinico della malattia fu solo la prima esposizione alle fibre.
A seguire la prima ipotesi, pertanto, se il lavoratore è stato esposto a fibre di amianto presso diversi datori di lavoro, ciascuna esposizione è concausa del danno, e tutti i datori di lavoro saranno responsabili in solido. Lo stesso, ovviamente, dovrà dirsi per la responsabilità civile delle persone fisiche che, rivestendo ruoli di vertice o controllo all’interno dell’azienda, siano state responsabili dell’omessa adozione di misure di sicurezza.
A seguire la seconda tesi, invece, “causa” in senso tecnico del danno potrà dirsi solo la prima esposizione: e quindi solo il primo datore di lavoro, e non i successivi, potrà essere chiamato a rispondere del danno. Allo stesso modo, anche se il lavoratore non abbia mai cambiato datore di lavoro, solo le persone fisiche che ricoprivano ruoli di vertice o controllo all’epoca della prima inalazione potranno essere ritenute responsabili, ex art. 2043 c.c., della malattia, e non i dirigenti ad esse succeduti.
Le indicazioni della giurisprudenza. su questo punto, non sono state sempre coincidenti.
Nella motivazione di Cass. civ., sez. lav., 30 luglio 2013 n. 18267, ad esempio, si afferma recisamente (§ 2.4 dei “Motivi della decisione”) che il mesotelioma pleurico può essere causato anche da una sola esposizione, ed anche molto bassa, alle fibre di amianto: e dunque si propende per la tesi della “dose-indipendenza”.
Meno di un anno dopo, però, la corte di legittimità (questa volta, tuttavia, una sezione penale) ha cassato con rinvio la sentenza di merito che aveva affermato l’irrilevanza causale delle esposizioni all’amianto successive alla prima sul tempo di latenza della malattia, negando così l’effetto “acceleratore” a tali esposizioni [Cass. pen., sez. IV, 8 maggio 2014 n. 18933 (udienza 27 febbraio 2014), Negroni]: è stata cassata, dunque, una sentenza che aveva aderito alla tesi della “dose-indipendenza”, ovvero proprio quella fatta propria da Cass. civ. 18267/13, cit.
Va tuttavia soggiunto che la decisione della Cassazione penale appena ricordata (18933/14) ha cassato la sentenza di merito per un vizio di motivazione, e non certo per avere aderito all’una piuttosto che all’altra teoria sulla genesi del mesotelioma: nella motivazione di Cass. pen. n. 18933/14, infatti, dopo l’amara affermazione che nei giudizi di merito “l’effetto acceleratore [delle esposizioni all’amianto successive alla prima]] viene ammesso, escluso, o magari riconosciuto solo parzialmente, con apprezzamenti difformi”, si riconosce che non spetta certo alla Corte di cassazione risolvere i contrasti scientifici, e nega che a Corte stessa abbia mai aderito alla tesi della “dose-indipendenza” o a quella ad essa contraria. “La indicata situazione di incertezza – si legge nella motivazione – chiama in causa questa Corte Suprema non per stabilire se la legge scientifica sia affidabile o meno (…), quanto piuttosto per definire quale debba essere l’itinerario razionale di un’indagine che si colloca su un terreno (…) caratterizzato da lati oscuri, da molti studi contraddittori e da vasto dibattito internazionale”.
E tale “itinerario razionale”, cui il giudice di merito deve attenersi, è così riassunto dalla Corte: il nesso tra esposizioni successive e mesotelioma può affermarsi o negarsi non già sulla base di opinioni personali od immotivate dei vari c.t.u. in circolazione (talora immotivate), ma solo sulla base di teorie scientifiche che soddisfino i seguenti cinque requisiti:
(a) siano fondate su solidi dati fattuali;
(b) siano fondate su ricerche ampie, rigorose ed oggettive;
(c) dimostrino alta coerenza tra i dati raccolti e le tesi che su essi si fondano;
(d) abbiano ricevuto un apprezzabile consenso nella comunità scientifica;
(e) provengano da soggetti indipendenti e di autorità indiscussa.
Nel caso deciso dal Tribunale di Taranto, che qui si annota, il problema centrale dell’accertamento del nesso di causa viene risolto dal Tribunale sulla base (parrebbe) di una sola deposizione testimoniale, dalla quale emerse che la vittima lavorava in un ambiente esposto a fibre di amianto, e senza protezioni.
Certo, una prova siffatta costituisce un potente elemento a favore della conclusione dell’esistenza del nesso di causa, ma non sembra che da solo possa bastare.
Alla luce di quanto esposto, ove non si voglia trasformare la responsabilità datoriale per mesotelioma pleurico nella (ennesima!) ipotesi di responsabilità oggettiva, sarebbe stato necessario accertare (ovvero, se accertato, dare conto in motivazione) quanto meno dei problemi relativi alla latenza della malattia, alla sua natura dose-dipendente o meno, ed al presumibile periodo di insorgenza.
Dallo “Svolgimento del processo” della sentenza che qui si annota, infatti, si apprende che la vittima smise di lavorare nel 1982, e si ammalò nel 2010, ovvero 28 anni dopo la cessazione dell’esposizione all’amianto. Ma poiché la latenza del mesotelioma può andare da 10 a 40 anni, come già detto, a sommesso avviso di chi scrive sarebbe stato doveroso indicare perché mai “iniziazione” e “promozione” del tumore, secondo quanto esposto in precedenza, si verificarono ambedue durante lo svolgimento dell’attività lavorativa, e non dopo la sua cessazione.
Né la questione del nesso di causa poteva essere risolta addossando al datore di lavoro il difetto di prova sul nesso di causa. La presunzione di cui all’art. 2087 c.c., correttamente richiamata dal Tribunale, solleva infatti il lavoratore infortunato dall’onere di provare la colpa del datore, ma non da quello di provare il nesso di causa tra la condotta negligente ascritta al datore di lavoro ed il danno (principio pacifico: ex multis, Cass. civ., sez. lav., 3 agosto 2012 n. 13956).
In un caso affine 8anche se non del tutto identico) a quello deciso dal Tribunale di Taranto, infatti, la S.C. ha ritenuto insufficiente, ai fini della prova del nesso di causa tra l’esposizione ad amianto e la morte del lavoratore per mesotelioma, “affermare che l’esposizione a polveri di amianto viene indicata da leggi scientifiche universali e probabilistiche come causa del mesotelioma pleurico” (vale a ire proprio quanto affermato dalla sentenza qui in rassegna).
Al contrario, secondo la Corte di cassazione, per affermare il nesso di causa tra amianto e mesotelioma è necessario “accertare che la malattia che ha afflitto il singolo lavoratore sia insorta, si sia aggravata o si sia manifestata in un più breve periodo di latenza per effetto dell’esposizione a rischio, così come verificata” [Cass. pen., sez. IV, 12 luglio 2013, n. 30206(udienza 28 marzo 2013), Ciriminna].
Né, credo, il precedente appena ricordato possa ritenersi irrilevante in ambito civile, sul presupposto che ormai l’accertamento della causalità in sede civile sia divenuto assai diverso dall’analogo accertamento in sede penale [per effetto di quanto stabilito da Cass. civ., sez. un., 11 gennaio 2008, n. 576, in Cass. pen., 2009, 69, con nota (di cui si consiglia vivamente la lettura) di Blaiotta, Causalità e colpa: diritto civile e diritto penale si confrontano, nonché in Giust. civ., 2009, I, 2533].
Che i criteri di accertamento della causalità in sede civile ed in sede penale siano ormai diversi, è un fatto: che il giudice civile debba comunque dare conto del perché sussista il nesso di causa, e donde ne abbia tratto la prova, è tutt’altra questione: ed anche per il giudice del risarcimento, come per quello del reato, limitarsi ad affermare che il nesso esiste perché “esistono leggi scientifiche di copertura” non sembra sufficiente a dare conto dell’esistenza di quel nesso. Le leggi scientifiche, infatti, a sole non bastano; occorre pur sempre verificare la (e dare conto della) sussistenza del nesso causale nel caso specifico.
Nell’ipotesi di mesotelioma da amianto, il giudice di merito non può fermarsi all’accertamento della c.d. causalità generale, ovvero della astratta relazione causale tra il fattore assunto a primo termine ed il tipo di evento che interessa, ma ha l’obbligo di accertare – anche col ricorso a presunzioni – anche la c.d. causalità singolare, ovvero del caso specifico.
Pertanto, non è sufficiente poter affermare che l’esposizione alle polveri di amianto viene indicata da leggi scientifiche universali o probabilistiche come causa del mesotelioma pleurico, ma va indagato se possa dirsi accertato che la malattia che ha afflitto il singolo lavoratore è insorta, o si è aggravata, o si è manifestata in un più breve tempo di latenza, per effetto dell’esposizione al fattore di rischio [così la fondamentale decisione pronunciata da Cass. pen. sez. IV, 13 dicembre 2010 n. 43786 (udienza 17 settembre 2010), Cozzini: si badi che la decisione, pur essendo stata pronunciata da una sezione penale della S.C., afferma un principio di metodo, sicuramente estensibile anche al giudizio di risarcimento del danno].
Mesotelioma e colpa del datore di lavoro
Molto minori sono i problemi posti dall’accertamento della colpa del datore di lavoro, in caso di danno da mesotelioma pleurico causato dall’esposizione alle fibre di amianto.
E’ ovviamente pacifico che spetti al datore di lavoro provare di avere tenuto una condotta diligente, e quindi:
(a) avere rispettato le misure di sicurezza prescritte dalla legge e dalla comune prudenza;
(b) avere fornito al lavoratore gli strumenti idonei di protezione;
(c) avere impartito al lavoratore la necessaria formazione sull’uso degli strumenti di sicurezza personale;
(d) avere vigilato sull’adozione di quei mezzi di sicurezza da parte del datore del lavoratore. Credo superfluo qualsiasi riferimento, trattandosi di princìpi pacifici e risalenti.
Per quanto attiene, in particolare, la colpa specifica per violazione di leggi e regolamenti concernenti la sicurezza sul lavoro, va ricordato che l’amianto è stato completamente bandito dall’art. 1, comma 2, L. 27 marzo 1992, n. 257, il quale vieta l’estrazione, l’importazione, l’esportazione, la commercializzazione e la produzione di amianto, di prodotti di amianto o di prodotti contenenti amianto.
La legge, inoltre, stabilisce i limiti massimi di esposizione all’amianto, nelle operazioni di smaltimento o per qualsivoglia ragione esposte a fibre di amianto (ad esempio, trivellazioni o scavi in terreni contenenti amianto). Tali limiti sono stati stabiliti dapprima dall’art. 31 D.Lgs. 15 agosto 1991, n. 277, in misura di 0,6 fibre per centimetro cubo per l’amianto crisotilo, e di 0,2 fibre per centimetro cubo per tutte le altre varietà di amianto.
In seguito l’art. 2, D.Lgs. 25 luglio 2006, n. 257 ha aggiunto l’art. 59 decies al D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, abbassando il valore limite a 0,1 fibre per centimetro cubo di aria, misurato come media ponderata nel tempo di riferimento di otto ore; e tale valore fu in seguito ribadito dall’art. 254, D.Lgs. 9 aprile 2008 n. 81, attualmente vigente.
Per i fatti anteriori al 1992, tuttavia, la colpa del datore di lavoro che non abbia provveduto ad adottare misure idonee all’abbattimento delle polveri di amianto, ovvero alla protezione individuale dei lavoratori, viene ugualmente affermata dalla giurisprudenza, spesso in base alla colpa generica (ex art. 1176, comma 2, c.c.), in base al rilievo che la pericolosità dell’esposizione all’amianto è nota da tempo: come dimostrato dal fatto che l’esposizione all’amianto per le donne ed i fanciulli venne vietata già dall’Annesso A, art. 29, Tabella B, punto 12, del R.D. 14 giugno 1909, n. 442, sulla tutela del lavoro delle donne e dei fanciulli (e ribadita dall’Allegato 2, Tabella “B”, punto 5, del R.D. 7 agosto 1936, n. 1720; per l’affermazione della responsabilità del datore che, anche prima degli anni ’90, non abbia adottato misure di prevenzione contro i rischi di esposizione all’amianto, si veda l’ampia motivazione di Cass. pen., sez. IV, 24 maggio 2012, n. 33311, nel celebre caso “Fincantieri”; da ultimo nello stesso senso, si veda Cass. civ. sez. lav., 21 settembre 2016 n. 18503, ove si afferma che “con riferimento alle patologie correlate all’amianto, l’obbligo, risultante dal richiamo effettuato dagli artt. 174 e 175 del d.P.R. n. 1124 del 1965 all’art. 21 del d.P.R. n. 303 del 1956, norma che mira a prevenire le malattie derivabili dall’inalazione di tutte le polveri (visibili od invisibili, fini od ultrafini) di cui si è tenuti a conoscere l’esistenza, comporta che non sia sufficiente, ai fini dell’esonero da responsabilità [del datore di lavoro], l’affermazione dell’ignoranza della nocività dell’amianto a basse dosi secondo le conoscenze del tempo, ma che sia necessaria, da parte datoriale, la dimostrazione delle cautele adottate in positivo, senza che rilevi il riferimento ai valori limite di esposizione agli agenti chimici (c.d. “TLV”, o “threshold limit value”), poiché il richiamato articolo 21 non richiede il superamento di alcuna soglia per l’adozione delle misure di prevenzione prescritte.
Danno biologico e morte della vittima
La sentenza qui in rassegna era chiamata a liquidare il danno patito da un lavoratore che, in conseguenza dell’esposizione all’amianto:
(a) si ammalò di mesotelioma pleurico;
(b) patì la malattia per sette mesi;
(c) morì a causa di essa.
A questo lavoratore il Tribunale ha liquidato:
(a) il danno biologico permanente corrispondente ad una invalidità del 100%;
(b) un aumento del 25% del danno sub (a), per tenere conto del fatto che la vittima fu cosciente dell’approssimarsi della propria morte;
(c) ridotto del 50% la somma degli importi (a) e (b), per tenere conto del fatto che la vittima sopravvisse solo sei mesi.
Ebbene, a me parrebbe che, così decidendo, il Tribunale abbia correttamente individuato i pregiudizi risarcibili, ma non abbia avuto mano felice nell’inquadrarli giuridicamente, e nel monetizzarli.
Il caso che il Tribunale doveva decidere era quello di una persona lesa nella salute che, a causa delle lesioni, muoia a distanza di un certo tempo.
Ricorrendo una ipotesi di questo tipo, due sono i soggetti danneggiati: da un lato la vittima primaria, dall’altro i suoi congiunti.
La prima patisce infatti un danno non patrimoniale consistito nella lesione della salute e nelle sofferenze ad essa connesse; va da sé che il relativo credito risarcitorio, morendo la vittima, viene trasmesso agli eredi (che possono anche non coincidere con i congiunti prossimi). I congiunti della vittima patiscono invece un danno jure proprio, da lesione del vincolo affettivo. Dalla sentenza che si annota parrebbe che i congiunti non abbiano domandato alcun risarcimento del danno jure proprio, sicché possiamo in questa sede trascurare il problema.
Il Tribunale, come si diceva, ha correttamente intuito che la vittima primaria ha patito un danno non patrimoniale; che questo danno non patrimoniale è consistito sia nelle sofferenze provocate dalla malattia; sia dalla consapevolezza di stare per morire; che tuttavia nella liquidazione del danno si dovesse tenere conto della vita effettivamente vissuta, e non della vita sperata.
Credo però – absit iniuria verbis – che nell’inquadrare giuridicamente questi pregiudizi il Tribunale sia incorso in tre qui pro quo.
Il primo equivoco è consistito nel qualificare il danno patito da persona che, dopo essere stata lesa, muoia a causa delle lesioni, come “danno biologico permanente”, per di più stimato nella misura del 100%.
Il danno biologico permanente, dal punto di vista medico legale, è nozione che presuppone l’esistenza in vita della vittima. La condizione di persona “permanentemente invalida” è attribuibile solo a chi:
(a) ha patito una lesione;
(b) ha attraversato un periodo di malattia (invalidità temporanea);
(c) sia guarito con postumi permanenti.
Ma se la lesione della salute provocata dal fatto illecito è talmente grave che non può guarire, e conduce a morte la vittima, la sussistenza d’un danno permanente è inconcepibile dal punto di vista logico e naturalistico, prima ancora che giuridico (così Cass. 17 marzo 2015 n. 5197, in motivazione; Cass. 13 agosto 2015 n. 16788, in motivazione). In questi casi infatti la malattia non si consolida, ma conduce la vittima all’exitus. E se, a malattia finita, il malato non è vivente, vuol dire che nessun postumo ha potuto consolidarsi. La vittima in questi casi ha certamente patito un danno biologico temporaneo, non può patire per definizione un danno biologico permanente.
Va da sé che, qualificato il danno di chi, malato, è consapevole di stare per morire, non ne derive certamente che esso possa essere liquidato con una diaria di pochi euro al giorno: il risarcimento dovrà essere adeguatamente personalizzato, ma resta escluso che possa avvenire facendo ricorso ai barémes medico legali di invalidità permanente.
Da questo primo errore ne è disceso un secondo: l’abbattimento del 50% del risarcimento, per tenere conto della vita effettivamente vissuta. Dove l’errore non sta certo nell’abbattimento – scelta corretta, per quanto s’è detto – ma nel criterio con cui è stato effettuato.
Infatti, una volta scelto di liquidare alla vittima un danno biologico “permanente”, in un caso in cui la permanenza dei postumi non era predicabile, il Tribunale ha dovuto confrontarsi col fatto che le tabelle di monetizzazione del danno biologico sono basate sul presupposto che il danneggiato viva per un tempo non inferiore a quello risultante dalla media statistica. Sicché, se la vittima muoia ante tempus, i valori risultanti da quelle tabelle debbono essere ridotti (principio pacifico: da ultimo, Cass. civ. 26 maggio 2016, n. 10897).
Tuttavia v’è da osservare che l’abbattimento del risarcimento per tenere conto della vita effettivamente vissuta non possa avvenire in via di equità pure, come parrebbe aver fatto il Tribunale, ma deve seguire un criterio verificabile e razionale. Questo criterio è quello della proporzione, come già affermato dal giudice di legittimità (Cass. civ. 30 giugno 2015, n. 13331), secondo cui per tenere debito conto della vita effettivamente vissuta dalla vittima di lesioni personali, va adottato il criterio della proporzione, secondo cui il risarcimento che si sarebbe liquidato a persona vivente sta al numero di anni che questi aveva ancora da vivere secondo le statistiche di mortalità, come il risarcimento da liquidare a persona già defunta sta al numero di anni da questa effettivamente vissuti tra l’infortunio e la morte.
Nel caso di specie il Tribunale ha liquidato – al netto dell’abbattimento per tenere conto della vita effettivamente vissuta – circa 900.000 euro, a soggetto di 75 anni, sopravvissuto alle lesioni per 6 mesi.
Essendo la durata media della vita delle persone di sesso maschile 79 anni, il criterio corretto sarebbe dovuto consistere nell’applicazione della seguente proporzione:
x : 0,5 = 900.000 : 4
dove “x” è il danno da liquidare; 0,5 è la durata della vita effettivamente vissuta; 900.000 è il danno che si sarebbe liquidato ad una persona che avesse vissuto per l’intera durata della vita risultante dalle tavole di mortalità; 4 è la speranza di vita che, secondo la statistica, ha una persona di 75 anni.
Sicché, sviluppando, avremo che
x = (0,5*900.000)/4
ovvero 112.500, vale a dire un quarto della somma effettivamente liquidata dal Tribunale.
Il calcolo del danno differenziale
Le vittime di mesotelioma da esposizione all’amianto avvenuta sul luogo di lavoro (ovvero i loro familiari) hanno diritto a due tipi di provvidenze pubbliche: la rendita erogata dall’Inail, ai sensi del D.P.R. 30 giugno 1965 n. 1124, e quella erogata dal Fondo per le vittime dell’amianto (art. 1, comma 241, L. 24.12.2007 n. 244).
E’ pacifico che la prima di tali prestazioni non possa cumularsi col risarcimento del danno civilistico. La seconda prestazione, invece, per una isolata decisione della Corte di cassazione sarebbe cumulabile col risarcimento del danno dovuto dal datore di lavoro (Cass. civ. sez. lav., 9.10.2012 n. 17092). Prescindendo per ora dalla condivisibilità di tale ultima affermazione, è pacifico che la rendita erogata dall’INAIL alla vittima vada detratta dal risarcimento del danno civilistico, col criterio delle “poste” risarcitorie: e quindi l’indennizzo per danno biologico va detratto dal danno biologico civilistico; l’indennizzo per danno patrimoniale da incapacità di lavoro va detratto dal danno patrimoniale civilistico, e così via.
Il Tribunale nella sentenza qui in esame ha correttamente affermato in astratto tale principio, ma ha ritenuto che – in assenza di prove circa la rendita erogata dall’INAIL alla vittima – si potesse procedere “in via equitativa” a determinare il sottraendo di tale calcolo differenziale.
Anche questa statuizione può destare qualche perplessità. La circostanza che la vittima d’un illecito abbia incassato un indennizzo dall’assicuratore sociale, in quanto fatto modificativo della pretesa attorea, è circostanza che deve essere dedotta e provata dal convenuto. Non solo nell’an, ma anche nel quantum. In una vicenda per molti versi affine, in cui la vittima di infezione da emotrasfusione aveva domandato il risarcimento del danno al ministero della salute, sebbene avesse percepito la pensione di cui alla L. n. 210/92, la Corte di cassazione ha infatti stabilito che l’indennizzo di cui alla legge n. 210 del 1992 non può essere scomputato dalle somme liquidabili a titolo di risarcimento del danno, “qualora non sia stato corrisposto o quantomeno sia determinato o determinabile, in base agli atti di causa, nel suo preciso ammontare”, posto che l’astratta spettanza di una somma suscettibile di essere compresa tra un minimo ed un massimo, a seconda della patologia riconosciuta, non equivale alla sua corresponsione e non fornisce elementi per individuarne l’esatto ammontare, né il carattere predeterminato delle tabelle consente di individuare, in mancanza di dati specifici a cui è onerato chi eccepisce il “lucrum”, il preciso importo da portare in decurtazione del risarcimento (Cass. civ., sez. VI-3, 14 giugno 2013, n. 14932). Nel caso deciso dalla sentenza che si annota, per contro, è il Tribunale stesso ad ammettere che non vi fosse prova dell’erogazione dell’indennizzo da parte dell’INAIL: il che avrebbe dovuto impedire qualsiasi decurtazione del credito risarcitorio.
Massime
La circostanza che un lavoratore sia stato adibito a lavorazioni che lo hanno esposto al rischio di inalazione di fibre di amianto, è di per sé sufficiente a ritenere sussistente un valido nesso di causa tra le mansioni lavorative e lo sviluppo di un mesotelioma pleurico, se il datore di lavoro non prova di avere predisposto adeguate misure di sicurezza, di avere adeguatamente educato il lavoratore al loro uso, e di avere diligentemente vigilato sulla loro adozione da parte del lavoratore.
Ai congiunti di un lavoratore deceduto a causa di un mesotelioma pleurico, ascrivibile a responsabilità del datore di lavoro, spetta a titolo ereditario il credito, acquisito dalla vittima, al risarcimento sia del danno biologico permanente, sia del danno morale, sia del danno c.d. “tanatologico”, consistente nella lucida attesa della propria morte.
Il risarcimento del danno biologico permanente deve essere equitativamente ridotto quando la vittima muoia ante tempus, per tenere conto della vita effettivamente vissuta, piuttosto che di quella sperata (nella specie, il Tribunale ha applicato tale principio in un caso di morte provocata dalle lesioni).
La redazione segnala:
- Danno e responsabilità, IPSOA, su CARTA, TABLET, WEB, SMARTPHONE.
(Altalex, 27 dicembre 2016. Nota di Marco Rossettitratta da Il Quotidiano Giuridico Wolters Kluwer)
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